Esistono gesti, momenti, riti ad alta carica simbolica, fortemente impressi nel vissuto di ciascuno, che documentano, in maniera indelebile, le radici della propria identità, ma che spesso soggiacciono all'incalzare indifferente delle trasformazioni in atto e dal fluire degli avvenimenti. Il Novecento è stato sicuramente il secolo delle più importanti e rapide trasformazioni, che ha costretto i nostri più prossimi predecessori a vivere drastiche e irreversibili mutazioni. Sollecitati dai facili entusiasmi, determinati dalla possibilità di migliorare le proprie condizioni socio-economiche, gli abitanti "dell'Italia contadina", legati in uno stretto rapporto ad una terra sempre più avara che non consente di vivere agevolmente delle proprie risorse, affogano nel proprio immaginario nel benessere futuribile e di rimando cancellano dalla memoria le magrezze trascorse, tentando di recidere le proprie radici paesane. Quando il passato si allontana e si fa storia, riaffiora glorioso, si sfronda delle vicissitudini contingenti, e recupera il carattere imprescindibile di baluardo del presente e trampolino verso il pus il futuro. È questo il momento in cui nasce il desiderio di riscoperta e di rivalutazione del trascorso con cui noi, "figli di questo tempo", intendiamo recuperare un rapporto di congiunzione scoprendocene ultimi portavoce. Con la realizzazione di un piccolo "museo" a Posticciola, vogliamo infatti proporre un percorso espositivo attraverso la storia della gente della Valle del Turano ed esprimere, tramite gli strumenti del lavoro, l'incontro tra l'uomo, la natura e la cultura.
Vogliamo recuperare l'attività umana quale chiave specifica di approccio alla conoscenza storico-sociale dei nostri avi: mediante il modo di lavorare, di organizzarsi, di progettare, di credere, è possibile entrare nel "quotidiano scomparso", conoscere l'uomo e il suo mondo, le sue fatiche il suo ingegno, scoprendone l'anima più profonda e nobile. Dai campi s'innalza la voce più pura e genuina: è l'aratro che rievoca i buoi stretti al giogo (ù 'juu) impegnati, in una sorta di simbiosi tra uomo ed animale, nell'atto preparatorio alla fecondazione della terra secondo l'eterno ciclo di riproduzione della vita.
È la curva falce messoria che chiude il ciclo della mietitura evocando solari momenti aggreganti, in cui raccogliere le messi attorno ai covoni, riflette un magico gesto di comunione. O ancora i traboccanti bigonzi, contenenti il frutto della vendemmia, che sembrano simboleggiare la fine della stagione campestre e l'inizio di un periodo di stasi delle famiglie contadine che, come l'uva che attende nei tini la sua lenta trasformazione, convertono la propria attività riciclandosi nei più svariati mestieri di fabbro, falegname, ciabattino, boscaiolo, ecc. È la stagione fredda, ed arnesi come il "cormaro" e lo "jemmero" richiamano il gesto rituale dell'uccisione del maiale: un rito di sangue che suscita festa anche nelle grigie giornate del solstizio invernale.
Evocando questi momenti, il nostro "museo" vuole raccontare la storia di donne di uomini che, nel corso di poche generazioni, hanno perduto tradizioni e cultura straordinarie. Sono momenti di vita semplice e laboriosa che assurgono a dimensione storica ed esprimono sapere sedimentati ormai sfuggiti alle nuove generazioni computerizzate; sono il segno di un mondo che spesso sopravvive timidamente nei ricordi personali e nelle memorie familiari, un mondo che rischia di scomparire per sempre e che reclama con forza il diritto-dovere di recuperare il ruolo centrale nel cammino storico della nostra terra verso un futuro consapevole.

M. Teresa Coderoni